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Scuola e formazione professionale in carcere ai tempi del Coronavirus. Come è stato rimodellato il carcere durante la pandemia?

Vladimiro Zagrebelsky
Perla Allegri Perla Arianna Allegri

Al fine di rendere possibile il distanziamento fisico e diminuire le possibilità di contagio all’interno delle carceri italiane, il Decreto Cura Italia è intervenuto ampliando i criteri di accesso alla detenzione domiciliare (di tipo semplice per chi deve scontare una pena inferiore ai 6 mesi, con braccialetto elettronico per chi ha una pena che va dai 6 ai 18 mesi). La seconda misura contenuta nel decreto è stata quella di concedere a chi era già in regime di semilibertà, laddove sussistevano i requisiti, di non rientrare in carcere a dormire. All’esito delle possibilità contenute nel decreto Cura Italia, 3116 persone hanno potuto uscire dal carcere e scontare la pena in detenzione domiciliare, 835 di questi con il braccialetto elettronico. La popolazione detenuta è così scesa di oltre 9000 unità, i restanti perlopiù in ragione dei mancati ingressi: si è arrestato meno e quando lo si è fatto sono state disposte misure alternative alla detenzione. E dentro, cosa è accaduto?

Per approfondire l’analisi sulla situazione attuale riguardo al tema della scuola e la formazione in carcere, abbiamo chiesto a Perla Allegri di fornirci dei dati aggiornati e di continuare la conversazione con Vladimiro Zagrebelsky. Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, dal 2010 è Direttore del Laboratorio dei Diritti Fondamentali presso il Collegio Carlo Alberto di Torino. Perla Allegri è ricercatrice del Laboratorio dei Diritti Fondamentali presso il Collegio Carlo Alberto di Torino, organismo di ricerca nel campo dei diritti fondamentali che si propone di esaminare i problemi presenti nella realtà italiana alla luce dell’elaborazione europea ed internazionale. 

Perla Allegri: A marzo 2020 il presidente del Consiglio ha messo fine ai colloqui tra detenuti e familiari: troppo alto il rischio di contagi da nuovo Coronavirus. Dopo alcune rivolte, l’Amministrazione penitenziaria ha deciso di aumentare da subito frequenza e durata di telefonate e videochiamate, attivando in quasi tutti gli istituti il servizio Skype. Come ha inciso il Covid-19 su quei limiti comunicativi tra dentro e fuori che sembravano insormontabili?

Vladimiro Zagrebelsky: “Molte persone ogni giorno entrano ed escono dalle carceri, dagli agenti di custodia agli educatori, eccetera. I parenti che vi si recano per i colloqui possono anch’essi certo essere veicolo del virus, cosicché si può comprendere che limitazioni temporanee siano state decise. Ciò non è avvenuto solo in Italia. L’uso dei mezzi telematici -alternativo al colloquio di persona- dovrebbe essere largamente usato nelle carceri, anche dopo che il periodo di emergenza sarà superato. In tal modo i contatti dei detenuti con la famiglia potrebbero essere più frequenti e organizzativamente non onerosi per la amministrazione penitenziaria. Il mantenere una “vita di famiglia” è un diritto del detenuto, come ha più volte affermato la Corte europea dei diritti umani. E si tratta di un diritto anche dei famigliari, genitori, coniugi, figli, cui non si dovrebbe infliggere una restrizione dei diritti e una pena non meritati.”

P.A.: Il problema dei contatti con i parenti è stato tamponato dall’uso delle tecnologie, ma il trattamento interno: scuola, formazione professionale, attività laboratoriali sono completamente ferme perché nessuno degli operatori preposti alle stesse può entrare. La scuola, dall’alfabetizzazione all’università, è ancora ferma, così come tutti i corsi di formazione professionale.  Queste nuove tecnologie non potrebbero essere utilizzate anche per i volontari e i formatori a cui, in questo momento, è vietato l’accesso?

V.Z.: “L’esperienza che tanti insegnanti e tanti studenti stanno ora facendo di istruzione a distanza potrebbe essere occasione di adozione normale del mezzo telematico nella attività di insegnamento e formazione, oltre che di sostegno sociale ai detenuti. Si può immaginare che il mezzo telematico sia largamente usato, eventualmente ad integrazione di un nucleo stabile di contatto di persona, che potrebbe essere mantenuto.”

Come auspicato da Vladimiro Zagrebelsky, dai dati raccolti all’interno dei penitenziari italiani sembrerebbero esserci alcune buone pratiche, emerse in seguito alla pandemia. Per esempio, quelle attivate dalla Cisco Academy che ha deciso di concedere gratuitamente Webex meeting alle strutture che ne avessero fatto richiesta e ben 56 istituti (tra cui Bollate, Opera, San Vittore, Regina Coeli, Secondigliano, Cremona e tanti altri) hanno aderito all’iniziativa.

All’interno della pletora dei diversi programmi per la realizzazione di videoconferenze ricordiamo l’utilizzo di Meet, sia per la scuola media che per le superiori ed alcuni percorsi di alfabetizzazione in istituti come Bergamo e Terni; oppure dell’applicazione Zoom, che a Velletri è stato inizialmente adottato per le classi quinte della scuola primaria, con sessioni da 40 minuti, per poi essere esteso alle altre classi. In alcuni istituti sono state organizzate sedute di video lezioni solo per alcuni cicli di istruzione e solo per alcune ore a settimana o dividendo gli studenti in turni; in altri, per ovviare alla mancanza dei computer, è stata utilizzata la Lim in classe. Si segnalano progetti di didattica a distanza attivati anche negli istituti penali di Volterra, Massa Marittima, Chieti, Milano Bicocca, Padova, Siracusa ai quali si aggiungono, seppur in fase di avvio, di Catania, Treviso, Livorno e Gorgona.[1]

Purtroppo, però, per quanto queste attività siano state innovative ed abbiano giocato un ruolo fondamentale nella continuità delle attività scolastiche, lo stesso non può dirsi per la formazione professionale che ha subito una dura battuta d’arresto. Tutte le attività che prevedono l’ingresso di soggetti formatori sono state infatti interrotte pregiudicando la buona riuscita e la continuità delle stesse.

Il trattamento non dovrebbe interrompersi in quanto rappresenta un’attività funzionale ad una riappropriazione del tempo detentivo in funzione di quando si riacquisterà la libertà e non un mero modo di far passare del tempo ai detenuti.  È auspicabile, come per le attività scolastiche, che le nuove tecnologie possano essere utilizzate anche per i corsi di formazione professionali ed i corsi ricreativi.

La pandemia ha sicuramente contribuito all’attivazione di nuove tecnologie. È auspicabile che queste rimangano attive e vengano implementate nei mesi a venire affinché la compensazione tecnologica tra diritti negati e nuovi concessioni sia un’occasione di crescita e di inclusione e non una concessione temporanea legata all’emergenza.

[1] Dati estrapolati dal sito dell’Associazione Antigone